Il “Gattopardo” che ci salva – In occasione di “Omaggio a Il Gattopardo” (Palermo, Palazzo Sant’Elia, 12 – 22 maggio 2018 nell’ambito della VII Settimana delle Culture )
Tipologia:  Scritto per il catalogo della mostra "Omaggio a Il Gattopardo", a cura di Anna Maria Ruta, Palermo, Palazzo Sant'Elia, 12- 22 maggio 2018, nell'ambito della VII Settimana delle Culture
Data/e:  12 - 22 maggio 2018
Autore:  Umberto Cantone
Articolo: 
Nel corso della Mostra sono state esposte le principali edizioni italiane del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa appartenenti alla Collezione Umberto Cantone
Se c’è un libro che dimostra quanto la fortuna di certi classici possa anche dipendere dagli incidenti che ne rendono avventurosa la pubblicazione questo è Il Gattopardo.
Parliamo di uno dei pochi monoliti letterari del made in Italy novecentesco, un longseller col quale è ormai difficile prendersela, a 65 anni dall’uscita, magari usando definizioni come quella di “antiquato” (rilanciata da Camilleri), se non altro perché c’è chi, in sede critica (Berardinelli), lo ha già identificato come capolavoro nel constatare la sua trasformazione in “oggetto desueto”, da amare in quanto tale.
Sulle vicissitudini del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa molto si è ricamato. Ma dopotutto, come si fa a non considerare la sua iniziale bocciatura che precedette il trionfo postumo un caso paradigmatico?
Tutti sanno che fu Elio Vittorini a non volerlo tra i suoi “Marchettoni” (come Carlo Emilio Gadda chiamava beffardamente i “Gettoni”, celebre collana diretta dallo scrittore siracusano).
Si sa pure che prima dell’Einaudi anche la Mondadori aveva opposto un rifiuto (c’era di mezzo ancora una volta Vittorini, ma forse no). E tutto questo prima che il “manoscritto del Principe” fosse intercettato, in modo assai tortuoso, da Giorgio Bassani che, dopo averlo divorato in una notte insieme a Mario Soldati, ne sollecitò la pubblicazione nella collana Feltrinelli di cui era consulente. E così, superando l’iniziale perplessità dell’editore Giangiacomo (a cui, com’è noto, non mancava il fiuto), il libro finalmente uscì come n. 4 della sezione “I contemporanei” della “Biblioteca di letteratura” della rinomata casa editrice milanese. Una scelta dirimente e (anche ideologicamente) clamorosa. Una scelta vincente (Il Gattopardo si accaparrò nel ’59 il Premio Strega superando Praz e Pasolini), che però avvenne a più di un anno dalla morte dell’autore, vinto da un cancro ai polmoni e, in misura minore ma influente, dall’amarezza di non aver potuto vedere pubblicato il suo romanzo.
Meno noto è invece che fu un altro imbarazzante contrattempo a provocare l’anticipato “si stampi” feltrinelliano, al quale peraltro si deve la particolare rarità della prima edizione del Gattopardo, considerata ancora oggi un trofeo da bibliomani, una di quelle perle che, una volta scovate, funzionano da ricompensa “salvifica” per ogni dragatore di bancarelle e librerie di modernariato.
Da possessore di una delle ormai rare copie della “prima”, so di dovere la mia “fortuna” soprattutto a un certo signor Osenda, responsabile commerciale della Feltrinelli di via Andegari in quel finire del 1958.
Fu lui, infatti, a modificare il piano di uscite che rimandava all’inizio del 1959 la pubblicazione del romanzo, dando la precedenza a titoli ritenuti “più sicuri” per le feste comandate (d’altronde, sottolineò Eugenio Montale, erano tempi quelli in cui “nessuno poteva dire che Lampedusa fosse il nome di uno scrittore”).
Una cosa è certa: senza quel rinvio non si sarebbe verificato il guaio delle “copie civetta” diffuse anzitempo tra addetti ai lavori, e della recensione di Carlo Bo apparsa sulle colonne della Stampa, quotidiano che violò avventatamente il silenzio mediatico imposto prima dell’uscita del volume nelle librerie.
Infuriato per la gaffe ma anche terrorizzato dal pericolo di una crisi diplomatica tra la sua casa editrice e le terze pagine delle testate in concorrenza, Feltrinelli autorizzò un “si stampi “precipitoso e riparatore di sole tremila copie, esauritesi in pochi giorni, del suo romanzo postumo. Che furono tremila lo sosteneva, con autorevolezza di testimone, Gioacchino Lanza Tomasi (scomparso nel maggio scorso), anche se il Gambetti-Vezzosi, la bibbia dei bibliofili, scrive che della prima tiratura se ne contarono duemila.
Il successo travolgente della primissima, precoce edizione diede la stura alla seconda che constò di altre quattromila copie. Bastarono appena otto mesi per raggiungere, in coincidenza con la clamorosa vittoria del Premio Strega, la quota di 250.000 mila, salita a 400.000 nell’arco dei primi tre anni. Quando il romanzo uscì nel novembre 1962, per la prima volta con sovraccoperta contava già di 69 edizioni.
Detto questo, c’è ben poco altro da cavare nella fortunata vicenda editoriale di un libro il cui trionfo planetario fu immediato (già nel 1960 un quotidiano austriaco lo pubblicò a puntate), e che nel frattempo, grazie anche al glamour provocato dalla pregevole versione cinematografica di Luchino Visconti, è “diventato fondamentale perché è un libro per tutti”, come ha detto giustamente Lanza Tomasi.
Anche se, per la verità, c’è ancora qualcosa che non torna sulla pubblicazione di quella prima, precoce edizione del Gattopardo.
E vi sbagliate se pensate che si tratti della mancata coincidenza tra il dato riportato dal colophon dell’antiporta, che indica il novembre 1958 come data della prima edizione italiana, e quello dell’ultima pagina che reca un “finito di stampare il 25-10-1958”.
Non è di certo quella l’anomalia, dato che simili disuguaglianze riguardanti le informazioni editoriali sono piuttosto comuni.
E’ invece più inconsueta, nel raffronto tra la copertina della prima e quelle delle edizioni successive nella collana di Bassani (a partire dalla seconda del 20 dicembre), la differenza del colore dominante nel viraggio del famoso disegno di Albe Steiner: giallo ocra per la seconda e le altre edizioni, arancione fiamma per la prima edizione.
Un piccolo mistero, da me personalmente verificato, è l’esistenza di alcune copie della “prima” con copertina virata in giallo ocra, e quindi assolutamente identica a quella della seconda e delle edizioni successive.
Il che induce a supporre che questa benedetta “primissima” del Gattopardo abbia avuto non una ma due tirature.
Oppure che si tratti di un’anomalia tipografica dovuta alla concitazione di quel varo anticipato.
A oggi l’enigma rimane irrisolto, per quel che ne so, e continua a intrigare alcuni interessati alla compravendita delle rimanenti copie della “numero uno” che, nel 2004, la casa d’aste Christie’s propose a poco più di mille euro, valutazione mantenuta di recente con picchi di 1600 euro e periodiche occasioni a buon mercato che però dipendono dallo stato di conservazione della copia.
Aggiungo, per dovere di cronaca, che oltre al prototipo della prima (arancione o gialla che sia), c’è almeno un altro Gattopardo che “ci salva”: la ricercata edizione di lusso in cofanetto marmorizzato con legatura in marocchino e stemma color oro al piatto in 500 copie numerate e illustrate da 17 disegni e foto.
È senz’altro la più sontuosa delle edizioni che Feltrinelli ha sfornato nel 1978, in occasione del ventennale dell’uscita di un romanzo “cascato come un meteorite nella nostra letteratura” (sostiene Carlo Bo) e la cui voragine si è trasformata in una fonte inesauribile di motivi e figure. Un trionfale exploit avventurosamente manifestatosi in un’epoca nella quale — ha scritto una volta Enrico Filippini — “fare l’editore significava o disporre di molto denaro e arrischiarlo, oppure non averne affatto e volerne guadagnare molto”.
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