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Dalla censura al premio la rivincita di Maresco regista che visse due volte

Dalla censura al premio la rivincita di Maresco regista che visse due volte

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Tipologia:  Articolo

Testata:  La Repubblica, ed. Palermo

Data/e:  10 settembre 2014

Autore:  Umberto Cantone

Articolo: 

Ora che il suo film più personale e sofferto è stato meritatamente premiato al Lido, innanzi tutto sfatando la leggenda di una certa sua inaffidabilità e sregolatezza, Maresco può finalmente concedersi d’invocare, dedicandogli la vittoria, il sole di quella Palermo che lo fa tanto incazzare.

Ma il fatto è che per questo cineasta maudit, scontroso e schivo come può esserlo un Céline dei nostri incupiti tempi, il sole della sua amata/odiata città continua a essere calante, e che a lui resta difficile spellarsi di dosso l’effetto illividente delle troppe eclissi subite negli anni, tanto da costringerlo a rintanarsi e quasi ad affogare da soccombente in patria.

Che Palermo tenda a celebrare tardivamente i suoi artisti più irregolari (basti per tutti l’esempio di Scaldati), che spesso neghi loro (istituzionalmente parlando) le dovute zattere di salvataggio, sono cose clamorosamente note, foriere di un dibattito che è doveroso rinfocolare.

E quindi, ora che Belluscone, anche come antidoto alla prosopopea dell’“antigufismo” andante, rischia di diventare un cult apprezzatissimo, nemmeno tanto sottovoce, da engagé di sinistra e persino di destra, è venuto il momento di fare i conti con la profezia (riguardante Palermo città-simbolo) espressa dal suo autore, fin dall’exploit originario nelle avvelenate iperbole di Cinico Tv.

Diciamolo subito: dal tempo di quei primi mosaici cinematografici fatti di purissimo sguardo, che seppero far turbinare le ceneri più acide di una Palermo impegnata a sudarsi il proprio riscatto dalla catastrofe mafiosa, Maresco non fa che procedere a barra dritta lungo la rotta del proprio cinema rivelatore, pur avendo perso il compagno di avventure Ciprì, nel frattempo approdato su sponde sabbiose.

E se le mostruose larve sottoproletarie dei Sudnormali, se gli ululati alla luna dei fratelli Abbate, se le merde parlanti fatte a immagine e somiglianza di disumano, se i peti di Paviglianiti e la putrefatta clownerie del Mafiaman di Tirone, se lo scalcinato e luciferino organizzatore di comparse Enzo Castagna, se tutti quei sontuosi e surreali teatrini ci fecero ridere di più rispetto a quanto riesce a farci ridere oggi la sfigurante calata bellusconiana nel neomelodico girone dei dannati e collusi di una periferia “ai confini della pietà”, questo si deve alla ritrovata e ormai diffusa consapevolezza che la prospettiva di quella porzione recintata d’inferno palermitano ci comprenda un po’ tutti.

L’addolorato ma implacabile overlook di Maresco, concentrato più che mai a ribadire lucidamente la caduta di qualunque illusione di emancipazione dallo sfascio, finisce con l’apparire ormai come il trasparente, realistico documento della nostra depressa, fatiscente (e forse irredimibile) condizione presente.

E comunque non tuona più la Palermo degli istituzionali salottini rabbiosamente “civili” che, durante la giusta foia della primavera conquistata, opponeva all’irriguardoso nichilismo di Maresco & Ciprì il cinema ben più edificante e speziato di Tornatore e Grimaldi. Non tuona più, e ormai fa solo… “Pif”. Anzi, di fronte alla recente vittoria veneziana di Maresco, pur concedendo qualche tiepido applauso, preferisce tacere.

Proprio come tacque durante il pionieristico inizio dell’impresa “cinica”, costringendo i due cineasti a peregrinaggi a vuoto in cerca di produttore, quando si rifugiavano nella complice trincea del “Cinestudio” e della “Showtime” di Bellone o nel fortino dell’Agis inscritto in “Palermo di scena”, prima dello sdoganamento nazionale nel cerchio magico della Raitre di Ghezzi e Guglielmi, dove poté andare in onda, a pochi giorni dalla strage di Capaci del ‘92, la loro striscia arroventata del canagliesco uomo bomba incarnato da Pietro Giordano.

Anche quando i due si esposero in ribalta, finendo nel tritacarne mediatico, quell’ostilità continuò, a eccezione di qualche espressione intellettuale di solidarietà isolata (per esempio, quelle di Letizia Battaglia, Enzo Sellerio e Rais). Finché Leoluca Orlando, sindaco entusiasta di una Palermo allora culturalmente prolifica, ostentò predilezione per quel fenomeno così tranchant, imponendosi una virata solo quando polemizzò (per lesa immagine di “Palermo risorta”) all’uscita del loro primo, clamoroso lungometraggio del 1995, Lo zio di Brooklyn, tornando però in seguito a farsi sodale finanziando l’apertura del “Lubitsch”, cinema di frontiera promosso da Maresco cinefilo con Paolo Greco, mentre l’assessore alla cultura Francesco Giambrone correva al Festival di Berlino 1998 a sostegno di Totò che visse due volte, pietra di uno scandalo e di un furore censorio che maciullò artisticamente ed esistenzialmente i suoi autori.

Del resto, l’attuazione di quell’antico progetto orlandiano di bonifica, non solo culturale, della Palermo nel Sacco, deve qualcosa alla febbrile attività di Maresco e Ciprì. A quei tempi bastava che i due scegliessero, per le proprie riprese, una certa location in una zona degradata di Palermo, che… oplà, una volta smontato il set, l’amministrazione intervenisse a restaurare. Ma nemmeno tale scrupolo servì a neutralizzare quella visione d’apocalisse.

Dopo vent’anni di tornado berlusconiano, mentre Palermo riprende a macinare illusioni di nuove primavere, ecco che Maresco, rimasto isolato a declinare le ragioni di una scontentezza fattasi collettiva, sembra oggi un don Chisciotte arrivato all’ultimo capitolo, estenuato nella sua cocente disillusione. E, in quest’ultimo film, solo apparentemente fa suo il ghigno dell’impresario Ciccio Mira, magnifica maschera del resistente orgoglio dei lumpen sconfitti, messaggero del popolo invisibile che ancora vive nell’illegalità coatta e a cui non resta altro che rimpiangere la “mafia buona” portatrice di lavoro, invocando cacofonicamente il ritorno dello zombie Belluscone, ovvero del garante politico di quello stesso paradigma, criminosamente incivile, che li ha condannati.

Sicuro di aver indovinato, da buon profeta, la sorte della sua Palermo che lui vede sempre più isterilita e “brutta”, Maresco fa lieve e ancora più ustionante il proprio segno, gettando il proprio corpo nella lotta, fra le macerie, come osò Pasolini prima di lui.

E nel far questo chiama all’appello amici e nemici di allora e odierni, interrogandosi e interrogandoci su un certo corrosivo senso di fallimento comune che ci fa, uno per uno, tutti più infelici.

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