Macbeth di Shakespeare / un film di Roman Polanski – Prima edizione italiana in Dvd
Regia:  Roman Polanski
Genere:  Tragedia
Origine:  Gran Bretagna
Anno:  1971
Da vedere:  * * * *
Sceneggiatura:  Roman Polanski, Kenneth Tynan. Dalla tragedia omonima di William Shakespeare
Cast:  Jon Finch, Francesca Annis, Martin Shaw, Terence Byler, John Stride, Nicholas Selby, Stephan Chase, Paul Shelley, Maisie MacFarquhar, Elsie Taylor, Noelle Rimmington, Noel Davis, Sydney Bromley, Richard Pearson, Michael Balfour, Andrew McCulloch, Keith Chegwin, Andrew Laurence, Bernard Archard, Diane Fletcher, Mark Dightam, Ian Hogg, Geoffrey Reed, Nigel Ashton, Patricia Mason, Billy Drysdale, Vic Abbott, Alì Joint, William Hobbs, Paul Hennen
Formato:  Dvd 1 disco. Video: 2.35:1- Anamorfico 16:9 / Audio: Mono Dolby Digital
Edizione:  Prima edizione italiana in Dvd del 2002
Casa di produzione:  Columbia Tristar Home Entertainment / Univideo
Lingua:  Italiano, Inglese, Francese, Spagnolo, Tedesco
Numero copie:  1
Durata:  140 minuti
Sottotitoli:  Italiano, Inglese, Arabo, Bulgaro, Cecoslovacco, Danese, Ebraico, Finlandese, Francese, Greco, Hindi, Islandese, Norvegese, Olandese, Polacco, Portoghese, Spagnolo, Tedesco, Turco, Ungherese
Direttore della fotografia:  Gilbert Taylor
Musiche:  The Third Ear Band (Denim Bridges, Paul Buckmaster, Simon House, Paul Minns, Colin Sweeney, Glenn Sweeney)
Colore/BN:  Colore
Note: 
Prima edizione italiana in Dvd di Macbeth (1971) di Roman Polanski, tratto dall’omonima tragedia di William Shakespeare.
NOTA SUL FILM
« Roman Polanski realizza il suo Macbeth cinematografico nel 1971. Si tratta del primo film girato dal regista dopo il massacro, ad opera di una sedicente setta satanica, della moglie Sharon, incinta, e di diverse altre persone che si trovavano nella sua villa di Bel Air. L’avvenimento condizionò probabilmente la scelta del soggetto e ne incoraggiò una lettura particolarmente granguignolesca, influenzata dal saggio che Jan Kott dedica alla tragedia nel suo libro «Shakespeare nostro contemporaneo». Polanski e Kenneth Tynan, critico e consulente del National Theatre, nel loro adattamento si mantengono molto fedeli al testo shakespeariano, su cui operano solo alcuni tagli e pochissime trasposizioni, sviluppando però la parte visiva e visualizzando anche scene che nel testo non sono previste affatto o solo descritte dal dialogo. Si può dire che, pur lasciando ampio spazio alla parte verbale, Polanski sfrutti tutte le occasioni che il testo gli offre per arricchire il film di quegli elementi spettacolari che nella tragedia sono lasciati in secondo piano o che non vengono mostrati. Morti e uccisioni sono abbondantemente esibite, a cominciare da quella di Duncan. Di fronte al corpo addormentato del re, un Macbeth esitante, quasi amletico, sembra non sapersi decidere all’azione, fino a quando Duncan apre gli occhi, incredulo nel vedersi davanti, col pugnale spianato, il suo leale cugino, ospite e vassallo. È solo in quel momento che, d’impulso, Macbeth affonda il pugnale nel petto del re, il quale però non muore subito, ma rotola sul letto, assieme alla corona, simbolo della sua regalità. Il colpo di grazia, una stilettata alla gola, produce un nuovo, più vistoso, zampillo di sangue. Una particolare evidenza drammatica viene data nel film alla scena del massacro in casa di Macduff, presentata come una vera e propria strage degli innocenti. Lo scontro finale fra Macbeth e Macduff poi è, più che un duello, una zuffa che non ha nulla di eroico o di catartico. I due contendenti, sfiniti, continuano a menare colpi alla cieca l’uno contro l’altro, come per forza d’inerzia, finché Macduff non riesce a finire l’avversario e a mozzargli la testa che, infilzata in una lancia, viene portata come trofeo nel luogo dove si dovranno celebrare la vittoria e il nuovo re.
Il gusto di Polanski per le fantasmagorie visive si manifesta, oltre he nella scena delle apparizioni e in quella dell’incubo, in cui Macbeth sogna di venire derubato della corona e minacciato di morte da Fleance, anche nella scena del pugnale. Con un trucco cinematografico il regista fa comparire davanti a Macbeth l’arma che lo guida al delitto. Le immagini illustrano, in modo un po’ didascalico, le parole del monologo, recitato quasi integralmente. L’effetto è vagamente comico più che drammatico, forse per l’eccessiva concretezza dell’oggetto o per la qualità piuttosto scadente dell’effetto speciale.
A differenza del Macbeth wellesiano, che domina lo schermo su uno sfondo di personaggi lasciati in secondo piano, quello di Polanski si colloca in una dimensione meno eroica: è un uomo fra altri uomini. Questo aspetto è sottolineato anche dalla composizione delle inquadrature, dove lo si vede spesso in situazioni pubbliche o collettive, raramente da solo. Quando deve ritagliare al suo protagonista degli spazi di solitudine per permettergli di esprimere dubbi e travagli della mente, Polanski fa ricorso alla voce fuori campo. Anche se non è fisicamente isolato dagli altri, nessuno (tranne gli spettatori) può sentire la voce interiore del protagonista. La sua solitudine è comunque meno evidente di quella del Macbeth di Welles e il rapporto con la moglie più stretto e più carnale; gli stessi interpreti sono molto più giovani. Anche l’ambientazione in esterni e interni reali, con animali veri e parecchie comparse, smorza il carattere magico e mitico della vicenda e le conferisce un tono più realistico, quasi domestico.
Un trattamento interessante subisce il personaggio di Ross, un cortigiano dal comportamento non poco ambiguo anche nel testo di Shakespeare, che non brilla certo per il coraggio delle sue scelte. Particolarmente pavido si rivela nella seconda scena del quarto atto, quando, con parole vaghe e allusive, lascia intendere di conoscere la minaccia che grava su Lady Macduff , ma non fa nulla per salvare lei e i suoi bambini. A Ross Shakespeare affida spesso il compito di messaggero di sventura. È lui, come si è visto, ad avvertire Lady Macduff del pericolo che incombe; è semptre lui ad informare Macduff della morte dei suoi congiunti; è sempre lui a dare al vecchio Siward la notizia che il figlio è morto. È vero che il contenuto del suo primo messaggio è una notizia di vittoria dell’esercito di Duncan contro i nemici, ma già l’annuncio successivo, che Ross dà a Macbeth della sua nomina a barone di Cawdor, è una notizia «fair and foul», bella e brutta: bella perché suona come un riconoscimento dei meriti di Macbeth e del suo valore, brutta perché farà scattare in quest’ultimo la molla di un’ambizione che lo porterà al delitto. Polanski e Tynan accentuano il carattere ambiguo di Ross, senza modificare il testo (solo con qualche scambio di attribuzione di battute), ma lavorando soprattutto sulla parte visiva. Il loro adattamento lega Ross a Macbeth molto più che in Shakespeare, facendone un personaggio pronto, per compiacere un re sanguinario e crudele, a sporcarsi le mani col delitto. Nel film diPolanski è Ross il terzo uomo che accompagna i due sicari incaricati di uccidere Banquo; è sempre lui che, in una scena non prevista nel testo, si sbarazza degli stessi assassini precipitandoli in una segreta del castello; ed è ancora lui che, nel lasciare la casa di Lady Macduff dopo essere andata ad avvertirla del pericolo, lascia aperto il portale di accesso perché gli assassini possano entrare e compiere la loro orrenda missione. Questa scelta drammaturgica, radicale, ma plausibile, che modifica di molto il carattere del personaggio, non ha solo la funzione di renderlo più riconoscibile, facendolo emergere da un arazzo di figure di sfondo poco definite, ma ha anche un’altra, più importante, funzione. Nel passare dalle schiere del tiranno Macbeth a quelle del liberatore Malcolm, Ross, non solo cortigiano ambiguo e pavido ma traditore e assassino, diventa l’elemento che inquina e guasta il trionfo dei “buoni”. Come in Welles, l’oggetto contaminato è la corona, il «golden round», che è proprio Ross a porre sul capo di Malcolm, il nuovo re.
L’idea di una continuità, di una ciclicità del male, raffigurata, all’inizio del film dal cerchio che le tre streghe disegnano sulla sabbia, è confermata con più forza nell’epilogo con cui Polanski decide di chiudere la sua storia. Quando tutto è finito, il tiranno debellato, il nuovo re incoronato, si vede avanzare in mezzo alla pioggia un cavaliere: è Donalbain, il figlio secondogenito di Duncan. Nel testo di Shakespeare questo personaggio compare tre volte al primo atto senza mai pronunciare una battuta. Torna poi in scena al terzo atto, quando viene svegliato dalle grida di Macduff e dal suono della campana che annuncia la scoperta dell’assassinio di Duncan. Anche in questa scena pronuncia non più di due o tre frasi, per prendere atto della morte del padre e per suggerire la fuga del fratello Malcolm, già designato da Duncan come futuro erede al trono. Mentre nel prosieguo della vicenda ritroveremo Malcolm come principe liberatore al comando delle truppe che avanzano contro Macbeth, di Donalbain non sapremo più niente, se non che, come ricorda Lennox al quinto atto, egli certamente non fa parte dell’esercito guidato dal fratello. Sfruttando i pochissimi elementi che il testo offre loro (e ancora una volta senza aggiungere una sola battuta), gli sceneggiatori fanno emergere dallo sfondo la figura di Donalbain. Per farlo usano unicamente mezzi visivi. Nella scena della designazione di Malcolm a principe di Cumberland e a futuro re, la macchina da presa si sofferma, oltre che sul volto corrucciato di Macbeth, deluso per non aver visto avverata la seconda parte della profezia delle streghe, anche su quello di Donalbain: il suo sguardo è un muto ma eloquente commento alla decisione paterna. Per consentire agli spettatori di riconoscere un personaggio che, nel corso della vicenda, ha così poco modo di mostrarsi, Polanski decide di attribuire a Donalbain una deformità fisica che aiuti a identificarlo meglio: ne fa uno sciancato, la cui andatura sghemba evoca fra l’altro la figura di un grande villain shakespeariano: Riccardo III. Contando su questo elemento di riconoscibilità, nell’ultima sequenza del suo film il regista fa«rientrare in scena» Donalbain: lo mostra mentre percore gli stessi sentieri battuti da Macbeth e Banquo, quei sentieri che hanno condotto i due personaggi, all’inizio della vicenda, all’incontro con le streghe. Lampi, tuoni e pioggia sono gli stessi, anche la destinazione è la stessa: una rozza costruzione di pietre, da cui salgono i bisbigli incantatori delle «weird sisters», che non si vedono, ma si possono immaginare in attesa della prossima vittima.
Come nel Macbeth di Welles e di Kurosawa, anche in quello di Polanski l’incubo non ha fine, non c’è nessuna alba, nessun sole che venga a squarciare la cortina di nebbia che apre e chiude, simbolicamente, i tre film. Alla regalità nera e corrotta di Macbeth non si contrappongono che sovrani resi esangui dalla morte, pallide figure di giovani re, o nuovi usurpatori. Tutti e tre i registi nei loro adattamenti scelgono di eliminare , forse perché troppo teatrale, forse perché troppo debole dal punto di vista spettacolare, forse perché troppo digressiva rispetto alla vicenda e al personaggio centrali, la grande scena terza del quarto atto, in cui Malcolm, reso maturo dall’esperienza, mette alla prova la fedeltà di Macduff, incolpandosi e attribuendosi vizi che non ha. Come ricorda Agostino Lombardo, questa scena, rivelando in Malcolm uno spessore politico insospettato, dà al personaggio una legittimazione più importante ancora della designazione del vecchio re e lascia prevedere per il futuro della Scozia un destino meno tragico. La sua eliminazione sposta decisamente il peso drammatico della vicenda dalla parte di Macbeth e ribadisce la ciclicità, l’irriducibilità del male. »
(Paola Quarenghi, Sangue chiama sangue. Il «Macbeth» di Polanski, in Shakespeare al cinema, a cura di Isabella Imperiali, Roma, Bulzoni Editore, 2000)
Sinossi: 
In una spiaggia desolata della Scozia d’inizio Basso Medioevo, tre streghe (le Norne) nascondono sotto la sabbia un braccio maschile armato di pugnale, prima di versargli sopra del sangue.
Aspettano Macbeth, reduce dall’aspra e vittoriosa battaglia contro le forze congiunte di Norvegia e Irlanda, guidate dal ribelle Macdonwald. A lui le tre streghe comunicano una profezia: la prima lo saluta come Barone di Glamis, la seconda come Barone di Cawdor, e la terza gli preannuncia che diverrà re. Macbeth rimane stupefatto e silenzioso, mentre al suo compagno di battaglia, Banquo, è annunciato un futuro regale della propria stirpe. Poi le tre streghe svaniscono e un altro barone, Ross, messaggero del re, informa Macbeth che questi ha appena acquisito il titolo di Barone di Cawdor, dato che il suo predecessore è stato accusato di tradimento: la prima profezia è così realizzata. Immediatamente Macbeth incomincia a nutrire l’ambizione di diventare re.
Macbeth scrive alla moglie riguardo alle profezie delle tre streghe. La giovane Lady Macbeth fantastica sul futuro di gloria, pregando gli spiriti di rendere più denso il sangue contro ogni accesso di pietà. Il piano di morte ha bisogno di una coltre di tenebra. Quando il re Duncan decide di soggiornare al castello di suo cugino Macbeth, a Inverness, Lady Macbeth escogita un piano per ucciderlo e assicurare il trono di Scozia al marito. Anche se Macbeth esita di fronte all’ipotesi del regicidio, la moglie riesce a convincerlo: re Duncan dovrà essere assassinato nel sonno, simulando un’aggressione da parte delle sentinelle. Nella notte della visita, Macbeth esegue il delittuoso piano.
È l’inizio di una spirale di morte. Anche se non è stato scoperto, avendo fatto ritrovare i pugnali insanguinati nelle mani delle sentinelle che si erano addormentate, Macbeth rimane talmente scosso da costringere la moglie a prendere le redini del suo destino.
Il mattino dopo il delitto, arrivano al castello Lennox, un nobile scozzese, e Macduff, il leale barone di Fife. Il portiere apre loro il portone e Macbeth li conduce nella stanza del re dove Macduff scopre il cadavere di Duncan. In un simulato attacco di rabbia, Macbeth uccide le tre guardie prima che queste possano reclamare la propria innocenza.
Macduff è subito dubbioso riguardo alla condotta di Macbeth, ma non rivela i propri sospetti pubblicamente. Temendo per la propria vita, i figli di Duncan scappano: Malcolm si rifugia in Inghilterra e Donalbain in Irlanda. La loro fuga appare però come un’ammissione di colpevolezza: Macbeth ne approfitta e sale al trono di Scozia in qualità di congiunto dell’ex re assassinato.
A dispetto del successo del proprio tradimento, Macbeth è ossessionato dalla profezia secondo cui un erede di Banquo sarebbe destinato a diventare re. Temendo una sua congiura, lo invita a un banchetto reale, nel corso del quale viene a sapere che la sera stessa Banquo e il giovane figlio Fleance avrebbero compiuto insieme una cavalcata.
Macbeth convince due cortigiani a trasformarsi in sicari per uccidere Banquo e Fleance (un terzo omicida, che nel film è Ross, compare misteriosamente nel parco prima dell’omicidio). Gli assassini uccidono Banquo, ma Fleance riesce a fuggire. Al banchetto, Macbeth cade vittima di una terribile allucinazione: lo spettro di Banquo, appena morto, si presenta al suo posto a tavola non visto dagli altri convitati. Tutti rimangono esterrefatti dall’improvviso delirio del nuovo re che si accanisce contro una sedia vuota. È Lady Macbeth a intervenire, ordinando agli ospiti di uscire e al marito di contenere la propria scomposta reazione.
Attanagliato dalla paura, Macbeth si reca dalle streghe, le quali prima lo drogano, comunicandogli le loro profezie, e poi lo mettono di fronte a una serie di visioni, l’ultima delle quali è quella del figlio di Banquo seduto sul suo trono. Macbeth si mostra intenzionato a resistere al proprio destino e assolda alcuni sicari al castello di Macduff per ucciderlo. Una volta arrivati, gli uomini non trovano Macduff (recatosi a cercare alleati in Inghilterra), e gli uccidono la moglie e i figli.
Nel frattempo, anche Lady Macbeth comincia a essere tormentata dal peso degli omicidi perpetrati per ambizione. In preda al sonnambulismo, la donna cerca di lavare una immaginaria macchia di sangue che le ha sporcato le mani.
Rifugiatisi Inghilterra, Macduff (che ha appreso la notizia della strage della moglie e dei figli) e Malcolm pianificano l’invasione della Scozia. Macbeth è ormai ritenuto nient’altro che un tiranno usurpatore, costretto a prendere atto della diserzione di molti sudditi e baroni della sua corte.
Malcolm guida un esercito con Macduff e Seyward, conte di Northumbria, contro il castello di Dunsinane. Ai soldati, accampati nel bosco di Birnam, viene ordinato di tagliare i rami degli alberi per usarli come trappola mimetica e per mascherare il loro numero. Macbeth è destinato a essere ingannato dall’ambigua profezia delle streghe secondo la quale, per mettere fine al suo regno, la foresta di Birnam avrebbe dovuto marciare su Dunsinane. Ed è quello che accade: le truppe inglesi mettono a ferro e fuoco il castello dopo essersi dissimulate dietro i rami degli alberi.
Alla notizia del suicidio della moglie, vistosi circondato, Macbeth pronuncia il famoso soliloquio (Domani e domani e domani). La battaglia culmina con l’uccisione del giovane Seyward e col confronto finale tra Macbeth e Macduff.
Macbeth non abbandona la propria arroganza e si convince a non temere Macduff, dato che, secondo la profezia, egli non può essere ferito o ucciso da chi è “nato da donna”. Durante il duello, però, Macduff dichiara di “essere stato strappato prima del tempo dal ventre di sua madre” e che quindi non si può definire “nato da donna”. Macduff decapita con la sua spada Macbeth, e realizza l’ultima delle profezie. Mentre sono in corso i festeggiamenti per il nuovo re, il giovane figlio di Duncan si reca a fare visita alle streghe.
<Nella realtà, anche se Malcolm, e non Fleance, conquistò il trono, la profezia delle streghe riguardante Banquo fu ritenuta veritiera dal pubblico di Shakespeare, che riteneva che re Giacomo I fosse un diretto discendente di Banquo.>
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